Il filiforme regista di Mozzanica, protagonista della promozione dell’Atalanta nel ’70, è stato poco profeta in patria. Ok ad Ascoli, meno con le milanesi
Come Eugenio Perico, più ad alta fedeltà ad Ascoli che in nerazzurro. Nessuno è profeta in patria, recita un vecchissimo adagio dei progenitori che parlavano latino. Adelio Moro nella Bergamo del pallone, a parte la panchina della Primavera dal 1988 al 1990, lo è stato in campo praticamente nell’unica stagione piena concessagli, quella del ritorno al piano di sopra nel 1970 con Giulio Corsini allenatore.
E dei suoi 10 gol da numero 10 classico, mezzala – come il mancino Pirola – ma in pratica regista offensivo con bomba nel piede ancor prima di Marino Magrin, tempi negli inserimenti e virtuale infallibilità dal dischetto: 23 su 24 in carriera nei soli campionati, 10 su 10 in A (l’unico col 100 per cento), un errore solo a Catanzaro il 14 maggio del ’78 in divisa Picchio. Oggi l’ex ragazzo di Mozzanica fatto nascere, come accadeva ai tempi, dal medico condotto del paese, il caluschese Osvaldo Mazzoleni, ne compie 68 col solo rimpianto, forse, di aver vestito le maglie delle due big milanesi negli anni sbagliati.
UN TALENTO DI PAESE. Nativo dell’ultimo Comune della Bassa bergamasca centrale prima del Cremasco, Moro, omonimo di Silvano che dell’Atalanta fu tecnico di Primavera e prima squadra (anche il suo, agli inizi), nonché di Domenico, il centrocampista di destra cui l’esplosione di Roberto Donadoni tarpò le ali verso la gloria, esordisce nella massima serie nell’occhiale casalingo contro la Sampdoria del 23 marzo ’69 subentrando a Sironi al 72′. Dopo l’annata in D in prestito alla Cremonese e il rientro trionfale, 6 palloni in porta al piano di sopra, quando c’erano in rosa il futuro presidente Antonio Percassi e l’altra mezzala (mancina) Giovanni Pirola, per la salvezza e l’approdo alla metropoli insieme a Giuseppe Doldi e Sergio Magistrelli.
MILANO, LE MARCHE E LA PANCHINA. La rampa di lancio interista nel triennio 1972-75, insieme a mostri sacri come Mazzola, Corso e Boninsegna, non va nemmeno malaccio a livello individuale, ma dopo gli exploit herreriani dei Sessanta c’era da rifondare e allora aurea mediocritas condita dal tris di partecipazioni alla Coppa Uefa. Quindi il downgrade veronese lungo nemmeno un anno e mezzo e, da novembre ’76 alla primavera del 1981, il quinquennio nelle Marche con l’altro bergamasco e atalantino, il mediano-terzino di Curno, più tardi raggiunti da Hubert Pircher, e allenatori del calibro di Antonio Renna, G.B. Fabbri e Carletto Mazzone. Poi il Milan ’81/82′, che ripiomba in B dopo aver scontato le nefandezze del calcioscommesse originale, il Cesena, il rientro alla base (70 presenze e 25 reti globali) con Nedo Sonetti neopromosso e due giri di corsa in C2 a Ospitaletto. Trampolino della vicenda da mister proseguita nella cantera di Zingonia, alla Lodigiani, al Brescia come vice di Lucescu e Maifredi con comparsate da responsabile tecnico, a Reggio Emilia sempre a traino del rumeno e a Vicenza (2001-2002) per il bicchiere della staffa in tandem con Fabio Viviani da subentrati a Fascetti. Tanti auguri.