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Calcio e Coronavirus. Ovvero l’Atalanta e lo scaricabarile

zingonia

Coronavirus e calcio, fatale l’abbraccio dell’8 marzo. Per l’Atalanta, invece, si risale fino all’andata di Champions il 19 febbraio: lo scaricabarile che non serve

Ezequiel Garay (il primo conclamato; rotto e assente), Eliaquim Mangala, José Gayà, il tm Paco Camarasa, il dottor Juan Aliaga. Poi tutti gli altri, a eccezione di Alessandro Florenzi, subentrato la volta dopo e quindi salvo. Su di lui zero dubbi, sui soliti noti sì. Chissà perché ci si dovrebbe appestare per forza, solo per vox populi. 19 febbraio-14/16 marzo: le date dell’alfa presunta e dell’omega, ovvero dell’andata degli ottavi di Champions e delle positività al Coronavirus del famigerato 35 per cento dei tesserati del Valencia presenti a San Siro quel lontano giorno. L’Atalanta, nell’emergenza sanitaria che ha stoppato anche il mondo del calcio, ormai è sinonimo di scaricabarile. Anche se nella Communitat autonoma tinta di blanquinegro c’erano le Fallas per strada fino a poche ore prima della partita di ritorno al “Mestalla”, il 10 marzo. Quindi casomai è il contrario, sono i nerazzurri che hanno rischiato o rischiano l’impestatura dagli avversari. Anche perché i contagiati in serie A acclarati negli ultimi giorni erano tutti a referto l’8 marzo, nei recuperi della settima di ritorno. E lì la Bergamo del pallone non c’era, si stava allenando per l’appuntamento europeo con la storia.

CORONAVIRUS, LE DATE NON MENTONO. Difficile pensare a un periodo d’incubazione così lungo da dover scomodare San Siro, l’Atalanta, la Champions a porte ancora aperte e dietrologie varie. A parte che la pandemia è globale per definizione e non guarda in faccia nessuno, per quanto in Italia e pure a Zingonia ci si sia di fatto isolati dal pubblico fin dalla fine di febbraio il rischio di contagio è stato alto finché non è intervenuto il tardivo decreto del governo stile Belpaese-zona rossa del 9 marzo. Il primo infetto dalle nostre parti, l’apripista, lo juventino Daniele Rugani, è stato reso noto il 13 scorso, 5 giorni dopo la panchina contro l’Inter. Più tardi anche la compagna bergamasca, anzi alzanese, Michela Persico, ha avuto lo stesso esito dal tampone.

CORONAVIRUS, CALCIO NEL MIRINO. Il Covid-18 è altamente contagioso, ma nessuno può dire come e dove può averlo preso. Certamente nell’11 contro 11 in campo la possibilità di infettarsi attraverso il contatto esiste, anche perché le vie aeree non sono mai a distanza di sicurezza, altro che il metro previsto per legge. Ma se il capofila era in panchina, viste le misure interne puntualmente applicate, significa che il male – senza sintomi, come nelle stragrande maggioranza dei calciatori – col calcio c’entra fino a un certo punto. Fa parte della società civile, ma è un’isola piuttosto felice. E s’è contagiato a stadi vuoti, lasciando fuori tutto e tutti. Anche se il 17 è toccato a Blaise Matuidi. Di interisti, subito in quarantena come chiunque, nessuna traccia. Nessuno, nemmeno qui, si fa troppe domande. Nel mirino dello scaricabarile ci sono soltanto i presunti miracolati, quelli che devono avercelo per forza.

RUGANI APRIPISTA, MA TUTTI CERCANO L’ATALANTA. Quella domenica di recuperi, iniziata con il famosissimo Parma-Spal in ritardo dopo il tira e molla con l’Assocalciatori, peraltro senza contagiati da Coronavirus al pari di Milan-Genoa, ha detto comunque davvero male alla massima serie nostrana. Esami e controlli a nastro fra i combattenti dell’8 marzo. Di Sampdoria-Verona, il 12, positivo Manolo Gabbiadini, bergamasco di Bolgare ed ex atalantino; il 13, Omar Colley (che ha fatto sapere d’esser guarito), Albin Ekdal, Antonino La Gumina, Morten Thorsby e il dottor Amedeo Baldari; il 14, nel silenzio stampa della società doriana, Bartosz Bereszynski, Fabio Depaoli e l’altro ex nerazzurro Edgar Barreto; il 17 il primo dell’Hellas, Mattia Zaccagni, compagno sulla trequarti dell’atalantino in prestito Matteo Pessina. Di Udinese-Fiorentina, finora, solo gli ospiti: il 13 Dusan Vlahovic, che ha avuto la febbre; il 14 Patrick Cutrone, German Pezzella e il fisioterapista Stefano Dainelli.

ATALANTA E SCARICABARILE. Dell’Atalanta, pardon dall’Atalanta, nessuna notizia. L’8 marzo non c’era, il 10 sì. A Valencia, a porte chiuse. Coi giornalisti non a distanza di sicurezza a importunare il Papu Gomez all’arrivo e migliaia di persone solo fuori dallo stadio ad accogliere con cori insultanti e fischi il pullman degli ospiti. “Possibile che a Bergamo nel calcio di serie A non ci sia alcun caso, col Valencia contagiato al 35 per cento?”, l’interrogativo in rete dal sapore sgradevole di tifo per l’inevitabile. Non è mica così automatico il contagio da Coronavirus, altrimenti l’avremmo tutti. Compresi i giornalisti, stipati all’inverosimile soprattutto nel chiuso della sala stampa-prefabbricato, bassa e strettina, ai piedi della rampa del “Meazza”. Un cronista valenciano passato di lì e ammalatosi la settimana seguente è rimasto l’unico dei cinque casi (i tifosi ospiti gli altri) conclamati del famoso 19 febbraio. Ma il primo morto, laggiù, risale al 13. Piano coi calcoli semplicistici. Lo scaricabarile è pretestuoso, controproducente e inutile nella migliore delle ipotesi. Danneggia i rapporti sociali, serve a creare mostri, evoca i tempi dei roghi degli untori. Piantiamola qui e smettiamola di riempirci la bocca di Atalanta magicamente immune e quindi sospetta. Aspettando che il gran circo del pallone rimetta su il baraccone tra le dovute precauzioni. Perché l’attesa di eventuali positivi a Zingonia e dintorni è qualcosa di miserevole. C’è l’isolamento fino al 24, il resto è fuffa.

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