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Vertova, dai Salesiani di Treviglio all’Uefa a Mosca

Lo stopper venuto dall’Empoli disputò 45 partite in due stagioni all’Atalanta. Eliminato nella prima partecipazione all’Uefa

Alla prima (delle due: l’altra, fino ai quarti con l’Inter l’annata successiva, da Piero Frosio a Bruno Giorgi), storica partecipazione dell’Atalanta alla Coppa Uefa, figlia del sesto posto by Emiliano Mondonico al rientro al piano di sopra, prese parte anche un salesiano del pallone diventato stopper famoso che risponde al nome di Claudio Vertova. Uno che a pelo d’erba, dal 1988 al 1990, arrivato dall’Empoli, controparte nell’avantindré della stagione precedente tra Luigino Pasciullo e Andrea Salvadori, contese a Costanz(i)o Barcella il ruolo di guastatore di feste per i centravanti nemici. Oggi, giovedì 6 luglio, il figlio della Treviglio del calcio, diventato grande nella Trevigliese e professionista nella Sanremese dell’ex nerazzurro Giancarlo “Pantera” Danova nei primissimi anni ottanta, spegne 64 candeline guardandosi alle spalle un mondo non più suo dacché smise di fare l’osservatore per conto dell’AlbinoLeffe.

VERTOVA, DAI SALESIANI A MOSCA. 13 settembre 1989, Stadio Comunale di Bergamo. Di là c’è lo Spartak Mosca, che due settimane più tardi avrebbe rifilato un paio di pappine ai nostri. La memoria, ancora freschissima, era ferma alla seconda e pur sempre storica partecipazione alla Coppa delle Coppe, la cavalcata fino alle mitiche semifinali col Malines a quasi un quarto di secolo da quei tre confronti con lo Sporting Lisbona targati Carlo Alberto Quario. Al Mondo, che fece riassaggiare l’Europa ai tifosi dal palato fino durante la riemersione doverosa dalla cadetterìa per merito della finale di Coppa Italia di Nedo Sonetti col Napoli scudettato, il miracolo numero due non riuscì. Senza impedire a Vertova, che giocava insieme a gente come Ferron, Progna, Contratto, Bonacina, Stromberg, Nicolini, Evair e Caniggia, di gustarsi la sua bella fetta di gloria comunque. Da titolarissimo che aveva cominciato a patire alle ginocchia col primo menisco in Riviera di Ponente e, nel 1984, s’era visto consegnare dalla sua città il San Martino d’Oro come atleta-simbolo locale.

VERTOVA, DUE STAGIONI, 0 GOL. Nessun pallone nella porta altrui da atalantino, per chi il numero 5 ce l’aveva stampato sulla pelle e in testa prima ancora che applicato a decalcomania sul retromaglia. Il suo compito era impedire a quella sfera magica e spezzo impazzita di mettere in difficoltà il compagno coi guantoni alle sue spalle. Liberava l’area in tutti i modi leciti e possibili, non di rado sforbiciando o imbozzendosi la fronte dall’alto di un metro e ottantasei ragguardevole per l’epoca come il suo stacco. Fare il difensore-goleador gli riuscì, a parte la cinquina a San Remo dove gli fu compagno il futuro nerazzurro Enrico Vella, in un centinaio di partite al netto della Coppa Italia, solo in Toscana, agli ordini di Gaetano Salvemini, una volta in B (al Cagliari) e l’altra in A (all’Hellas), in 191 presenze laggiù. Qui 45, alla Lazio di Dino Zoff con mezzo ginocchio già sacrificato alla causa soltanto 6, al Lecco 23 prima di appendere le scarpe al chiodo nella Trevigliese, lui che era cresciuto nell’oratorio dei Salesiani, qualcosa che dalle sue parti profuma storicamente soprattutto di basket. Avrebbe poi fatto il dirigente anche ad Arcene e allenato a livello dilettantistico, col ricordo di Mosca (allo Stadio Dinamo che non c’è più) negli occhi e nel cuore. Perché fu vera gloria lo stesso. Tanti auguri.

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