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Morto Vendrame, il fantasista beat anni settanta

Noto per il bestseller “Se mi mandi in tribuna, godo”, il fantasista-scrittore se n’è andato a nemmeno 73 anni per un male incurabile. L’ultimo beat del calcio italiano

In un’intervista fra le tante ma non tantissime, alla Gazzetta dello Sport, s’era espresso più o meno così: “Il calcio di oggi è acrilico, finto, di plastica. Ci sono stati solo tre giocatori al mondo: Maradona, Zigoni e Meroni. Rigorosamente in quest’ordine, non alfabetico”. Nel suo primo libro, la confessione di aver quasi fatto autogol in un Padova-Cremonese combinato (in C, coi grigiorossi bisognosi di un punto per la promozione) dopo aver scartato i compagni “per vivacizzare il pomeriggio, una melina, una pazzesca rottura di balle”. Il pallone ha perso stamattina, nei pressi di Treviso, Ezio Vendrame, forse l’ultimo calciatore beat, esponente di una generazione tra gli anni sessanta e settanta che qualche volta bruciava come lui il talento sull’altare di un’esistenza piuttosto libertina. Scrittore e poeta dopo aver messo a livello professionistico, Vendrame s’è arreso a un male incurabile a nemmeno 73 anni.

VENDRAME, CALCIATORE E SCRITTORE BEAT. Nato il 21 novembre 1947 a Casarsa della Delizia (Pordenone), il paese dell’ex atalantino Bryan Cristante della madre di Pier Paolo Pasolini in cui lo scrittore e regista era vissuto a lungo, Vendrame, notissimo per il suo romanzo “Se mi mandi in tribuna, godo” (2002) sulle ipocrisie e certi retroscena ambigui di un mondo dorato soltanto in superficie, aveva iniziato nelle giovanili dell’Udinese per poi giocare in A (dal 1971 al 1975) soltanto con Vicenza e Napoli, dopo essere passato anche per Spal (con Edy Reja e Fabio Capello), Torres, Siena e Rovereto. In seguito, invece, Padova, Audace San Michele Extra (Verona), Pordenone e Junior Casarsa, ritirandosi a 34 primavere per poi allenare saltuariamente nelle giovanili di Pordenone, Venezia e Sanvitese (di San Vito al Tagliamento) fin dentro gli anni Duemila. Era detto “il George Best del pallone” e “il Kempes di Pordenone”.

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